Quannu Cesari jittavu / lu gran bannu ‘mpiriusu, / ‘nta la chiazza si truvava San Giuseppi gluriusu. Così cominciava la novena. E così finiva: Pruvinzali vi saluta/ ch’ha pirdutu li nuttati: / cu ddu soddi chi ci dati, / Pruvinzali lu pajati.
di
Vincenzo Consolo
Provenzale era il vecchio campanaro del paese. Un vecchio alto e magro, la testa bianchissima, che cantava e suonava il mandolino. L’accompagnavano, con fisarmonica e chitarra, l’organista Fiorino e il calzolaio Machi. Era certamente, la novena del provenzale, una delle tante ninnareddi dei ciechi, forse una variante messinese del Viaggiu dell’Annuleri, che mia madre ogni anno "pigliava". Arrivava, il terzetto, verso mezzanotte, prima come eco lontana, dalla casa dei Calderone, dei Ricciardi, delle signorine Lo Monaco; sotto casa nostra, mi sembrava che il Provenzale sostasse più a lungo, dispiegasse di più la sua voce, forse per il fatto che noi eravamo in tanti, in otto figli; poi passava alla casa dei Ferrara, dei Cappelletti, e giù giù fino a dileguarsi.
Natale era il Provenzale ed era anche la preparazione del presepio. Pel presepio, io e mio fratello Melo andavamo, prima d’ogni cosa, alla ricerca dei carcarazzi, pietre nere e porose come le pietre laviche, che si rinvenivano lungo la ferrovia oppure alla centrale elettrica dei Franchina. I carcarazzi erano la base del presepio, formavano, ammucchiati, montagne, valli e grotte. E poi veniva la raccolta del muschio e dello spino. Era questa l’avventura lungo il torrente Cannamelata. Un torrente che scorreva incassato dentro alti terrapieni, in mezzo ai giardini d’arance e di limoni. Era la ricerca del muschio e dello spino, ma era anche la caccia alle rane e ai granchi che scovavamo nelle gore, nel fango, sotto le pietre. Le rane venivano infilzate con gli stecchi, i granchi arrostiti vivi sopra fuocherelli. Fu cosi che a una curva si presentò una volta il luponario. Ritto e immobile, sul ciglio del terrapieno, le mani incrociate sul nodo del bastone, gli occhi fissi al cielo, le tre caprette intorno che brucavano l’erba delle conche. "Guarda!" disse Melo puntando l’indice, come avesse scoperto la prova tra le gambe di quell’uomo. Aveva, il luponario, un ingombro straordinario che gli gravava sul cavallo. Era l’ernia, la ragione del suo trasformarsi in bestia urlante. Ma per quanto il vecchio fosse feroce e sanguinario nelle notti di luna piena, di giorno e l’altre notti era mite come un santo. Sorrise, nel vederci, staccò una mano dal bastone e fece un segno, forse d’avvicinarci oppure di saluto. Spaventati ci arrampicammo veloci su pel terrapieno e ci mettemmo a correre dentro l’aranceto. Il sole filtrava a lame di tra le foglie e le spere rosse che pendevano fitte sopra le nostre teste, e un ventarello freddo come un brivido, scivolando dai Nebrodi innevati, correva in mezzo agli alberi udimmo a un tratto grida stridule come d’infante e poi grugniti che venivano dal fondo degli aranci Cercammo la sorgente di quel chiasso e ci trovammo davanti una casa che era quella dei mezzadri di donna Costanza Celi vedova Cracò, padre, madre, tre femmine e un maschio, Michele, che aveva la coda sopra il culo ed era fortissimo, nero nero e petroso, soggetto di frequente agli insulti del morbo. Tra i fuochi e i fumi dello spiazzo, Michele teneva alto sopra la testa, come fosse un coniglio o un capretto, un gran porco nero. Poi ridendo lo costrinse nella madia, gli legò insieme le zampe come un mazzo di carciofi, tirò fuori il coltello dalla tasca, fece scattare la lama e l’infilò nella gola all’animale. Le sorelle, fianchi e poppe pieni, accorsero con bacinelle e pentole sotto lo zampillo rosso. Il porco urlò in modo disumano e si zitti solo quando Michele, lavorando in giro in giro con la lama, non gli staccò la testa e la depose dentro il grembiule apparato di sua madre. Poi le tre sorelle buttarono secchi d’acqua bollente sul corpo dell’animale. Michele e suo padre si misero a raschiare coi coltelli. Quando la cute fu pelata, bella liscia e rosea, il giovane forzuto tagliò profondo al centro della pancia e tirò fuori tutto il bendidio, rosso, marrone e fumante. I vari pezzi furono disposti sopra un tavolino; i budelli, svuotati dalle donne, furono stesi su una corda per farne poi sanguinacci, salsicce e soppressate.
Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace e l’offrirò a te, gentile lettrice, caro lettore, assieme a un bicchiere rosso di Falcone e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compar Pitrone. Le mandava ogni anno in una gran cesta tonda, d’oro pure lei. Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo per tutto il tempo del Natale. Sovrastava, il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle lazzeruole, delle zizzole, delle nespole d’inverno, delle granate e delle cotogne. E mi credea che il compar Pitrone cogliesse quelle mele da un albero fatato, un albero d’un Eden suo segreto, nascosto nel cuore d’una latomia o solitario in cima a un cocuzzolo, dritto e compatto come un albero dipinto, con pioggia, grandine e vento, fermo e sereno, sempre indorato dal sole o argentato dalla luna.
Fatato come le rose in cui si tramutò Gesù Bambino nel grembo di sua Madre quando, sorpresa la Famigliola in fuga per l’Egitto nascosta in una macchia di lupini secchi e scroscianti (maledetti siano i lupini!), chiesero alla Donna i feroci gendarmi dell’Erode: "Che porti?", "Rose", e allargò le cocche del grembiule e mostrò i fiorellini profumati. Giuseppe, il suo consorte, rimase esterrefatto.
Chi raccontava questo Vangelo apocrifo era la zia Sindòne, zia di mia madre, che ogni sera faceva una sua novena di Natale con tutti noi in giro in giro alla conca. E passava quindi, per svariare, a Rizzieri e Fioravanti, Angelica e Orlando. "Mèntio per me" diceva quando il filo del racconto dovevasi interrompere perché necessitava di ritorni indietro, flashback.
E anche il presepio, la rappresentazione del presepio aveva un suo filo, sosteneva donna Menica la Zoppa, che forse voleva dire un suo stile, e quindi i pastori bisognava rinnovarli tutti quanti ‘na volta che una parte s’era rotta, ché il santà ro don Biagio, l’uomo che li forniva, ogni anno li faceva diversamente, secondo la fantasia.
Pastori simili a quelli di donna Menica, di creta, colorati di giallo, rosso, blu, celeste, rosa (colori soavi, chagalliani, come quelli dei pupi di zucchero o dei gelati) li ritrovai dopo anni - una vita! - in un presepio alla Casa Museo di Antonino Uccello, a Palazzolo Acreide, dove passai un Natale.
Ah, Antonino, sparviero e airone, rapace di memorie, tu che fiutasti per primo la tempesta, l’alluvione, quella tua casa alta dei venti e degli spiriti trasformasti in teca d’osso, in reliquiario d’un mondo trapassato di fatica e di dolore, ma vero, umano, per il quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio di riscatto.
Sotto vetro sono sigillati tutti i nostri Natali, tutte le feste della nostra vita distrutta e cancellata. È sepolto Provenzale con la sua novena, Michele con la coda, donna Menica coi pastori, zia Sindòne coi Vangeli e i Paladini. Ed è sepolto anche il luponario. Lo sai, quella del lupo mannaro è una scomparsa epocale simile alla scomparsa delle lucciole di Pasolini: ora sulle macerie, sulla desolata fanghiglia non s’odono più che risa di sciacalli, e ululati di lupi, lupi veri, isterici e ottusi.
Museo vivente chiamavi la tua Casa, ed era invece un teatrino struggente d’illusioni. E venivano i contadini (vecchi, vecchi, i soli ormai rimasti) a macinare il grano, a pigiare l’uva, a cagliare il latte per le ricotte e i formaggi, a spremere i favi delle api; venivano le contadine a impastare il pane, a infornare i dolci di fichi e miele. Ma non erano quelli ormai che gesti rituali, sacre cerimonie in chiese di Pantalica, in catacombe di volontaria, tenace sopravvivenza.
Dalla tua scomparsa, dalla distruzione anche delle reliquie, viviamo ormai in un’epoca fantastica, del fantastico senza fantasia. La realtà non esiste più, esiste solo la ricreazione d’essa nel modo come comanda il potere politico ed economico, nel modo in cui la diffondono i mezzi di comunicazione di massa.
Una realtà , questa ricreata, uniforme e squallida, precaria, fugace, senza passato, senza futuro.
Viviamo nell’epoca del fantastico senza fantasia, ma viviamo insieme in un’epoca bizantina. Voglio dire che chi più soffre per questa irrealtà in cui viviamo, non fa che ricordare la vera realtà omai perduta. E come Michele Psello, i barbari alle porte, perché ogni memoria non fosse cancellata, scriveva agli imperatori di Bisanzio, cosi noi non raccontiamo ormai che di tutti i nostri ieri, del Natale, la più grande festa.
Il fatto è, che è caduta la metafora. E ciò vuol dire che è caduta la speranza, nell’oggi e nel domani.